La storia di Miguel, recluso nel CIE di Ponte Galeria


E’ una giornata come tutte le altre, con la speranza e con la disperazione, un uomo meticcio cerca stabilità e diritti come ogni giorno. In un momento di pacatezza, mentre cammina per le strade della capitale, succede l’impossibile.

Trattato come un criminale, viene preso con forza e portato in un centro di identificazione ed espulsione. Nel silenzio e tra le sbarre trascorre lunghi giorni a pensare come mai in una terra piena di diritti, un uomo deve essere calpestato e violentato psicologicamente. Cerca di capire perché non è gradito in questo paese e perché i diritti fondamentali, di cui si fanno promotori, su di lui ed altri disgraziati della terra non valgono nulla.

Arrivato 20 anni fa da molto lontano, auspicava di realizzare i suoi grandi sogni. Miguel Angel Villarrubio Henrriquez, un uomo peruviano di 45 anni, arrivava con la speranza di trovare un futuro degno per esprimere al meglio il suo status di semplice, ma importante, essere umano. E’ arrivato nella penisola italiana con la speranza di coltivare i suoi sogni, per poi tornare nel suo paese con un bagaglio economico e culturale molto più soddisfacente.

Ho ascoltato le sue storie, i suoi sogni spezzati e le sue critiche ad una democrazia valida solamente per una maggioranza avida che vive e rispetta le regole del gioco. Un gioco che reprime, disprezza ed allontana tutti i gruppi più vulnerabili della terra. Il vecchio continente è sempre pronto a dare sentenze sugli abusi dei diritti umani nei paesi del cosiddetto terzo mondo. Ma quando, gli abitanti di questi paesi chiedono e denunciano veramente gli abusi, l’Europa gira lo sguardo altrove.

La voglia di rivincita di Miguel, contro un mondo pieno di problematiche è stato ancora spezzato. Il sudamericano viene rinchiuso nel CIE di Ponte Galeria. Non è una sala del cinema dove si vedono sorrisi e allegria. Non è neanche una galera. E’ molto peggio dicono dal centro. Chi varca quei cancelli non ha i diritti che spettano ai detenuti, né la dignità che spetta a ogni essere umano.

Le sbarre del centro sono altissime da superare, ma mai insormontabili come quelle del distacco e dell’indifferenza della gente che a pochi passi dal Cie, indisturbata, si intrattiene nel centro commerciale “Parco Leonardo”. Lì dentro, molte persone si divertono a fare shopping e lunghe passeggiate. Mentre, a poca distanza c’è un centro disumano, visto come una semplice normalità. Addirittura, molte persone non sono neanche a conoscenza dell’esistenza della struttura. Rinchiusi ci sono uomini, donne e molto spesso anche bambini. Tutto ciò, accade a pochi passi dal nostro vivere quotidiano.

Ho conosciuto la sua storia ed ho avuto il piacere di parlare più volte direttamente con Miguel, di ascoltare il suo racconto dalle sue parole che sgorgavano come un fiume in piena. Miguel, prima di finire in gabbia, ha lavorato come collaboratore domestico, nelle ville di personaggi ricchi e famosi. Una su tutti, Anna Fendi, a Villa Camilluccia. Mentre serve nelle ville dei ricchi, Miguel, legge, studia e si informa. Il suo sogno era di racimolare un po’ di denaro e iscriversi all’università e intraprendere la carriera da Sociologo.

Nonostante tutto, gli piaceva la nuova vita. Sicuramente meglio che vivere all’interno di quelle gabbie. E’ partito per entrare nel continente dei sogni e della libertà. Per trovare un futuro migliore. Ha lavorato per anni senza uno stralcio di contratto e senza contributi. E’ un illegale, ma questa situazione secondo Miguel, poteva cambiare da un momento all’altro. La speranza lo accompagnava sempre.

Ma non aveva fatto i conti con la legge. Il suo "status di clandestino" è illegale e perseguibile dall’ordinamento giudiziario. Le sue fatiche si sono azzerate, è stato per molto tempo il signor nessuno, per molti un criminale senza aver commesso mai reati. La polizia lo trova senza permesso di soggiorno e viene sbattuto dentro una gabbia senza sapere neanche il perché. E’ un illegale, un diverso e questo può bastare per sbattere in prigione un essere umano. All’interno di quel lager vive disperatamente per tre mesi.

Afflitto dalla disperazione, ingoia due pile e della candeggina. Non riesce a sopportare di sottovivere in prigione, senza aver commesso nessun reato. Non lo può accettare. Compie un atto estremo e spera che qualcuno si accorga di lui, della sua storia, delle sue aspirazioni spezzate. Ingoiate le pile, viene portato per dodici giorni all’ospedale di Ostia in piena solitudine. Nessuno va a trovarlo, neanche il suo avvocato. Esce circa una settimana dopo, anche se non è ancora fuori pericolo. Viene portato di nuovo al centro di detenzione con una pila bloccata nella pancia e con forti dolori. Gli chiedo se può avvisare qualcuno che sta male, ma lui mi risponde dicendomi che “sono tutti indifferenti, nessuno mi ascolta”.

Miguel , venti anni fa, giungeva in Italia per lavorare ed avere un’autonomia. “Il mio sogno era diventare sociologo. Invece, mi ritrovo rinchiuso qui dentro con una pila nello stomaco, dopo aver lavorato per l’Italia e per gli italiani. Capisco che anche voi Italiani lavorate in Nero e ciò non è giusto, si ledono i nostri diritti. Spero solo di guarire e vivere una vita normale.”

Racconta di essere partito con gli ideali europei fatti di libertà e dignità per ogni essere umano: “forse io mi sono illuso tanto con l’ideale dell’Unione europea che mette al centro ogni singolo essere umano. Sono forse un illuso a pensare che l’Europa difende la dignità dell’uomo. Questa veramente mi sembra un’utopia. Sono molto triste di questa grande menzogna. E questo mi fa sempre piangere, veramente.”

Grazie alla rete, la sua storia diveniva pubblica, quindi accessibile a tutti. “L’ufficio immigrazione mi ha convocato per sapere se era tutto vero ciò che avevo raccontato nelle interviste” mi raccontò Miguel in una telefonata. Lui conferma tutto e dopo appena qualche settimana, mercoledì 30 settembre, è stato sbattuto fuori dall’Italia come se fosse un criminale.

Svegliato alle 7 del mattino e portato di forza all’ufficio immigrazione dove gli comunicano che ci sarebbe stata la partenza immediata. Tanto immediata da non lasciarlo nemmeno tornare nella cella per prendere qualche piccolo risparmio. Non so se è stata la normale procedura di espulsione di un immigrato, oppure una ripicca contro la sua voglia di vivere e di lottare.
Il viaggio? “Mi ero preparato a questo, ero un po’ dispiaciuto ma tranquillo”. Eppure è stato tenuto per molto tempo “con una specie di camicia di forza” ed è stato fatto salire sull’aereo prima di tutti gli altri. Lontano da sguardi indiscreti. Poi, il ritorno a casa con l’unico ricordo dell’Italia che si porta addosso: la pila nello stomaco.

Comunque la pensiamo, siamo in grado di confermare che i Cie sono un estensione del sistema carcerario, luoghi squallidi dove all’interno succede di tutto. Proprio di tutto. Sono centri che molte volte restano isolati ed inaccessibili. Fuori le mura nessuno sa nulla. Tutto tace. Il modello adottato è troppo fragile per garantire i diritti umani di molte persone che cercano un futuro migliore in Europa.

La stampa, ci mostra una sola etichetta dei reclusi, senza pensare, e riuscire a capire, la loro enorme eterogeneità. Purtroppo, si generalizza e non si raccontano le singole storie di uomini e donne fatte di soprusi e sopraffazioni. “. Assomiglia tanto ad un gioco squallido e architettato a tavolino, volto a far apparire gli immigrati tutti malvagi e prepotenti.

Dopo un po’ di tempo dall’espulsione di Miguel, sono riuscito a raggiungerlo telefonicamente dal Perù. Si domanda quale sia la strada per cominciare a lottare: “A volte dico: non è difficile diventare un sovversivo, assolutamente non è difficile diventarlo di fronte a tanta ingiustizia. Ma sai che ti dico? Io mi batterò non con il fucile, né con il passamontagna, bensì con la forza della parola e la ragione collettiva. L’Italia cambierà e quando lo farà mi piacerebbe tornare, perché ho trovato gente speciale in questo paese”, Parola di Miguel.

In realtà, dopo 20 anni trascorsi in Italia, Miguel è stato espulso dal SUO paese.

Andrea Onori

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