Alina, morta nel commissariato di polizia a Trieste

Lei era ALINA BONAR DIACHUN, una ragazza ucraina di 32 anni. Il giorno del 16 aprile, Alina prendeva un cappio e lo stringeva attorno al collo, nella cella in cui era stata rinchiusa due giorni prima, nel commissariato di villa Opicina, a Trieste.
Sembrava un triste caso di "istigazione al suicidio", come se ne vedono tanti nelle carceri italiane.
La ragazza, accusata di favoreggiamento all'immigrazione clandestina, era stata scarcerata il 14 aprile dopo aver patteggiato.
Cosa ci faceva allora, due giorni dopo, in una cella del commissariato?
 Sulla stanza in cui era rinchiusa "vegliava" fissa una telecamera di sorveglianza.
A quanto pare la ragazza dopo essersi stretta il cappio al collo, formato con il cordoncino della sua felpa, ha avuto un'agonia di 40 minuti: più di mezz'ora in cui nessuno ha dato uno sguardo alla telecamera. Cosa grave, visto che la ragazza aveva già tentato il suicidio in carcere.
Le perquisizioni hanno portato alla luce una realtà spaventosa: fascicoli riguardanti immigrati detenuti illegalmente dentro al commissariato senza alcuna copertura giudiziaria. All'interno dell'ufficio immigrazione appariva un cartello con su scritto "ufficio epurazione" con sopra la foto di Mussolini. Insomma, l'ufficio della questura era un vero "altarino" alla ideologia fascista dove gli immigrati venivano trattati in maniera disumana. Incredibilmente, di fronte a questi dati di fatto che certo non rendono onore al dirigente di una questura, l'Associazione nazionale funzionari di polizia ha espresso "solidarietà" a Baffi. A quanto pare "sarebbero decine i casi riscontrati nello scorso mese di aprile", ha detto al quotidiano Il Piccolo di Trieste Dalla Costa.


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