Senza nessuna cittadinanza. Nei Cie troppe persone impossibili da identificare.

È il caso di molte persone nate in ex Jugoslavia, ma non riconosciute dalle nazioni attuali. Per loro la prospettiva è una permanenza di 18 mesi, per poi uscire e rischiare di rientrare.


L’ultimo caso è quello di una donna rom di 30 anni, in Italia con 5 figli. Oggi si trova nel Cie di Bologna, sta aspettando di essere identificata, ma questo non avverrà mai. Perché la donna è nata in Bosnia quando ancora c’era la Jugoslavia: il suo nome non è registrato da nessuna parte, in quello che per la legge italiana dovrebbe essere il suo Paese, non sanno niente di lei. E così rimarrà 18 mesi nel Cie, in attesa di un’identificazione impossibile, poi uscirà e rischierà di ripetere la stessa esperienza. “Nel Cie se ne incontrano parecchie di persone così, persone che entrano ed escono: c’è un vuoto legislativo”, spiega la garante dei detenuti dell’Emilia - Romagna, l’avvocato Desi Bruno, che oggi ha posto la questione alla commissione consiliare delle elette del Comune di Bologna.


Quante sono le persone che in realtà non dovrebbero trovarsi nei centri di identificazione ed espulsione? Difficile capirlo con certezza, ma di certo in quello di Bologna “la metà delle persone trattenute viene espulsa, ormai questo è un dato costante”. Nel 2011 le espulsioni sono state 334, a fronte di 665 persone transitate dal centro di via Mattei. E gli altri? In 192 hanno fatto richiesta di protezione internazionale, ma solo 30 l’hanno ottenuta. “Ma fra i 53 cittadini tunisini che sono stati nel Cie nessuno ha fatto richiesta”, spiega la direttrice Annamaria Lombardo, “il loro obiettivo era raggiungere la Francia, e con la protezione internazionale non avrebbero potuto farlo”.


Altri 107 sono usciti con un permesso per protezione sociale o per motivi di salute. Fra questi anche 12 donne vittime di tratta, che hanno ottenuto il permesso di soggiorno grazie all’articolo 18 del Testo unico per l’immigrazione del 1998. Ad assisterle l’associazione Sos Donna, che ha aiutato altre 7 persone nella richiesta di asilo politico. Nell’ultimo anno abbiamo preso in carico 60 - 70 persone”, spiega Carla Martini, in rappresentanza dell’associazione, che segnala il caso di una ragazza minorenne, riconosciuta come tale solo dopo che Sos Donna l’ha aiutata a rintracciare i documenti scolastici che provavano la minore età. I percorsi di protezione sociale vengono gestiti anche insieme alla Casa delle donne, che nel 2011 ha seguito 7 casi nel Cie (e già 4 dall’inizio del 2012, in totale una ventina di persone dal 2009). “Di queste sette, sei sono uscite dal centro e si sono inserite nel mondo del lavoro, tanto che il loro permesso di soggiorno è stato convertito da motivi di protezione sociale a motivi di lavoro”, spiega Silvia Ottaviano della Casa delle donne: “Una donna però è stata rimpatriata nonostante la nostra lettera di presa in carico”. Non è l’unica stortura che le associazioni hanno registrato all’interno del Cie. “Purtroppo di violazioni ce ne sono”, spiega Simone Ferraioli dell’associazione Eureka, che gestisce uno sportello legale nel Cie: “provvedimenti non tradotti, indicazioni per il ricorso non segnalate. Spesso è proprio l’informazione che manca, molti chiedono a noi il motivo per cui si trovano nel Cie”.


Redattore sociale

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